Scossa duramente l’opinione pubblica: il naufragio di Cutro, in cui hanno perso la vita più di 90 persone, tra cui molti bambini e pochi giorni dopo, un altro naufragio, questa volta nell’area SAR libica, ha provocato altri morti.
Questi sono soltanto gli ultimi di un lungo elenco, in cui si alternano naufragi con grossi numeri ad altri in cui, comunque, qualcuno perde la vita nel Mar Mediterraneo.
Ogni volta ci diciamo “non deve succedere più”, ma sappiamo già, dentro di noi, che non sarà così. Tuttavia, non ci si può rassegnare a una tale strage. È davvero impossibile evitare che accadano ancora naufragi?
La situazione è oggettivamente complessa, per estensione del fenomeno, per il numero di migranti che si mettono in viaggio. Ma la complessità del fenomeno rischia di essere un alibi a questo stato di impotenza e rassegnazione, che si traduce, se non in uno stato di inettitudine, in un cercare di gestire il possibile e salvare il salvabile.
Manca, forse, una prospettiva ampia del fenomeno migratorio, che invece di essere emergenziale, sia capace di guardare la tipicità del fenomeno, che ormai caratterizza il nostro tempo. La complessità, lungi dall’essere un alibi, costituisce piuttosto una sfida alla nostra intelligenza e creatività, alla capacità di dare risposte nel segno della nostra umanità. Per i cristiani, si tratta di discernere i segni dei tempi, che interpellano una risposta di fede. Se differenti sono gli approcci alla gestione del fenomeno migratorio, se si può discutere sui numeri di quanti possono trovare accoglienza nel nostro Paese, tuttavia c’è qualcosa che dovrebbe essere indiscutibile, su cui tutti dovrebbero essere d’accordo: le vite umane devono essere salvate, non si può lasciare morire nessuno in mare, a maggiore ragione chi fugge dalle guerre o dalle calamità naturali.
É una legge inscritta nel cuore dell’uomo ed è sancita dal diritto internazionale, che stabilisce l’obbligo di salvataggio in mare. Nessuna remora in questo senso può esserci, nessuna giustificazione resiste davanti al bene prezioso della vita.
Se questo è vero, se è chiaro per tutti, occorre allora sgomberare il campo dalle ipocrisie. È risaputo che tutti i giorni i migranti tentano di attraversare il Mediterraneo con imbarcazioni precarie, fragili strutturalmente e riempite all’inverosimile. Non ha senso allora attendere che chiedano aiuto per intervenire, il rischio è che sia troppo tardi.
Gli Stati europei, che si definiscono civili e talvolta, secondo i casi, a convenienza, orgogliosamente cristiani, hanno il dovere di mettere in atto ogni iniziativa civile o militare di protezione delle imbarcazioni dei migranti prevenendo le richieste di soccorso nel mare. Questo potrebbe essere fatto autonomamente da ogni Stato, nel mare di propria competenza, ma meglio ancora sarebbe creare una cooperazione tra gli altri Stati che si affacciano sul Mediterraneo e con gli altri dell’Unione Europea, senza trascurare la collaborazione delle ONG, la cui azione meritoria non può essere sottaciuta.
Ed è ipocrita affermare che impedire le partenze dei migranti possa salvare loro la vita, fingendo di non sapere che da alcuni Stati di partenza, come la Libia, essi fuggono da sevizie e torture che subiscono in quelli che, ormai, è dimostrato essere dei veri e propri lager. Non possiamo neanche dimenticare che molti di loro hanno il diritto di asilo, in quanto rifugiati internazionali. Essi, in fuga da regimi totalitari e spietati, devono essere ospitati e non può essere impedito loro di raggiungere una destinazione sicura.
La soluzione qui prospettata, non può essere, forse, sufficiente a risolvere il problema dei naufragi; occorre, per esempio, perseguire le organizzazioni criminali che organizzano la tratta, sapendo però che le persone continueranno a partire. Tuttavia la determinazione di salvare le vite umane deve essere sempre perseguita e garantita con passione.
A meno che, e forse con sincerità bisogna pur dirselo, la paura dell’arrivo di così tante persone diverse per etnia, dal colore della pelle e di culture differenti dalla nostra, porta con sè, ad un livello profondo e forse non cosapevole, una qualche forma di remora o pigrizia o, appunto, scarsa determinazione nel volere perseguire la salvezza delle vite umane.
Se è così, non temiamo di guardare in faccia le nostre paure. La paura del diverso, che mette in discussione la nostra identità culturale, è normale, ma poi occorre fare un passo avanti, essere capaci di uno sguardo profetico che vede la ricchezza che ciascuna persona porta con sè. Ogni fratello e sorella che arriva è un dono che è possibile scoprire nell’incontro rispettoso delle culture reciproche, un incontro che può rappresentare un incredibile fattore di crescita per tutti.
Scritto da Prof. Antonio Acquaviva, MCM